La malattia
LA DEMENZA
LA MALATTIA DI ALZHEIMER
CARATTERISTICHE GENERALI
CAUSE
DESCRIZIONE CLINICA
STORIA
CLINICA
CURA
AIUTARE LA FAMIGLIA
DIAGNOSI
I 10 SINTOMI PRINCIPALI
PATOGENESI
PREVENZIONE
PROGNOSI
SINTOMI

LA DEMENZA
La demenza è una sindrome clinica
(insieme di sintomi) dovuta ad una malattia cronica che colpisce il
cervello e lentamente porta la persona alla morte.
In particolare deteriorano piano piano
le facoltà mentali come la memoria, il linguaggio, l'orientamento
spazio-temporale e la capacità di ragionamento. Col progressivo
peggioramento di queste abilità la persona presenta difficoltà
sempre maggiori nel riconoscere oggetti e persone, lavorare, curare
l'igiene della propria persona e della casa, preparare i pasti, ecc.
Sin dall'inizio, ed in maniera assai
variabile da caso a caso, insorgono problemi di umore come
depressione, ansia ed angoscia.
A seconda della causa della demenza,
inoltre, possono comparire disturbi del comportamento come
agitazione, aggressività, reazioni paranoiche ed apatia.
Durata di malattia:
la diagnosi di demenza in genere viene
fatta dal medico mediamente dopo 18-36 mesi dalla comparsa dei primi
sintomi. La durata della malattia varia dai 3 ai 18 anni: è
dimostrato che sulla durata di malattia influiscono negativamente
altre malattie concomitanti e l'uso di farmaci neurolettici.
Forme cliniche di demenza ( ):
-
malattia di Alzheimer, 50
– 65%
-
demenza vascolare: 11 –
24%
-
demenza a corpi di Lewy:
10 – 15%
-
demenza fronto-temporale
ed altre forme di demenza: 4%
Quanti
sono gli ammalati ?
Si dice che gli ammalati in Italia
siano almeno 500.000 (c'è chi dice che sono 800.000).
La malattia colpisce il 6,4% (studio
ILSA, Italia, 1997) delle persone ultrasessantacinquenni. La
percentuale aumenta considerando fasce di popolazione più anziane:
sopra i 90 anni la percentuale supera il 40 %.
Qualche elemento di speranza.
In un recente articolo scientifico Schrijvers (Neurology, 2012.) ha confrontato l'incidenza della
demenza nella città di Rotterdam nel 1990 e nel 2000: considerando
tutte le fasce d'età nel 2000 la demenza non è aumentata, anzi è
calata del 15%.
Nello studio del Karolinska Institute
di Stoccolma (Fratiglioni, 2009) è stata seguito un grande numero di
anziani della Svezia dal 1987. Ebbene, è stato dimostrato che
esistono fattori protettivi verso la demenza come 1) mantenere una
estesa rete di contatti sociali 2) fare attività fisica, 3) svolgere
attività di impegno mentale.

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LA MALATTIA DI ALZHEIMER
Il morbo di Alzheimer è una forma di
demenza irreversibile e progressiva che distrugge lentamente la
memoria e le capacità cognitive e, infine, impedisce al paziente di
portare a termine persino i compiti più semplici. Nella maggior
parte delle persone affette dal morbo di Alzheimer i sintomi
compaiono per la prima volta dopo i 60 anni.
Il morbo di Alzheimer è la forma di
demenza senile più comune, demenza significa perdita delle capacità
cognitive (pensiero, memoria e ragionamento) in misura tale da
interferire con la vita e le attività quotidiane della persona:
secondo stime recenti in Italia i malati di Alzheimer sono circa
520.000 ed i nuovi casi sono stimabili in circa 80.000 all’anno.
La malattia deve il suo nome allo
scopritore, un medico che si chiamava Alois Alzheimer, che nel 1906
scoprì dei cambiamenti nel tessuto cerebrale di una donna deceduta
per una strana malattia mentale. Tra i suoi sintomi c’erano perdite
di memoria, problemi di linguaggio e imprevedibilità del
comportamento. A seguito della morte il medico esaminò il suo
cervello e scoprì molte macchie anomale (che ora vengono definite
placche amiloidi) e grovigli di fibre (ora definiti ammassi
neurofibrillari).
Le placche e gli ammassi all’interno del
cervello sono due delle caratteristiche biologiche del morbo di
Alzheimer, la terza caratteristica è la perdita di connessioni tra
le cellule nervose (i neuroni) del cervello.

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CARATTERISTICHE GENERALI
Essa è stata descritta per la prima
volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois
Alzheimer. Nel 2006 vi erano 26,6 milioni malati
di tutto il mondo, e si stima che ne sarà affetta 1 persona su 85 a
livello mondiale entro il 2050.
La sua ampia e crescente diffusione
nella popolazione, la limitata e comunque non risolutiva efficacia
delle terapie disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua
gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che
ricadono in gran parte sui familiari dei malati, la rendono una
delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.
Anche se il decorso clinico della
malattia di Alzheimer è in parte specifico per ogni individuo, la
patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei
pazienti. I primi sintomi osservabili sono spesso erroneamente
considerati problematiche "legate all'età", o manifestazioni di stress.
Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l'incapacità di acquisire
nuovi ricordi e la difficoltà nel ricordare eventi osservati
recentemente. Quando si ipotizza la presenza di un possibile morbo
di Alzheimer, la diagnosi viene di solito confermata tramite
specifiche valutazioni comportamentali e test cognitivi, spesso
seguiti dall'imaging
a risonanza magnetica.
Con l'avanzare della malattia, il quadro
clinico può prevedere confusione, irritabilità e aggressività,
sbalzi di umore, difficoltà nel linguaggio, perdita della memoria a
lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali.
La causa e la progressione della
malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca
indica che la malattia è associata a placche
amiloidi e ammassi
neurofibrillari nel
cervello. Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono
piccoli benefici sintomatici, e possono parzialmente rallentare il
decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500
studi clinici per l'identificazione di un possibile trattamento per
l'Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne
arrestino o invertano il decorso. A livello preventivo, sono state
proposte diverse modificazioni degli stili di vita personali come
potenziali fattori protettivi nei confronti della patologia, ma non
vi sono adeguate prove di una correlazione certa tra queste
raccomandazioni e la riduzione effettiva della degenerazione.
Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono
state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, che come
modalità complementari di gestione della malattia.
Poiché per il morbo di Alzheimer non
sono attualmente disponibili terapie risolutive ed il suo decorso è
progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene
essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto a prendersi in
carico il malato (caregiver),
compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del
paziente può sperimentare pesanti carichi personali, che possono
coinvolgere aspetti sociali, psicologici, fisici ed economici.

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CAUSE
Non si conoscono con esattezza quali
siano le cause del morbo di Alzheimer, ma sappiamo che i danni al
cervello iniziano a comparire già 10 o 20 anni prima che i sintomi
diventino evidenti nel comportamento.
Gli ammassi iniziano a svilupparsi in
una zona profonda del cervello (la corteccia entorinale), mentre le
placche si formano in altre zone. Con la formazione delle placche e
degli ammassi i neuroni sani iniziano a perdere efficienza, in
seguito cominciano a non funzionare più e a non comunicare più tra
di loro ed alla fine muoiono.
Questo processo di degrado si diffonde
in una struttura vicina, l’ippocampo, che è necessaria per il
processo di memorizzazione. Più i neuroni muoiono, più le zone del
cervello colpite iniziano a rimpicciolirsi. Con lo stadio finale del
morbo di Alzheimer il danno è diffuso ovunque e il tessuto cerebrale
si è ridotto in maniera significativa.
La malattia si sviluppa a causa di una
complessa catena di eventi che avvengono nel cervello sul lungo
periodo, probabilmente le cause sono legate a fattori di ordine
genetico, ambientale e riguardanti lo stile di vita. Poiché le
informazioni genetiche e lo stile di vita delle persone variano
molto, l’importanza di questi fattori per prevenire il morbo di
Alzheimer, oppure per rallentarne il decorso, varia da persona a
persona.
I fondamenti.
I ricercatori stanno compiendo ricerche
per conoscere meglio le placche, gli ammassi e le altre
caratteristiche del morbo di Alzheimer. Ora hanno la possibilità di
vedere le placche tramite l’imaging del cervello di persone vive.
Stanno anche esplorando le primissime fasi della malattia. Le
scoperte fatte grazie a queste ricerche li aiuteranno a comprendere
le cause del morbo di Alzheimer.
Uno dei misteri legati al morbo di Alzheimer è perché colpisca quasi
esclusivamente gli anziani,
per far luce su questo fatto sono in corso ricerche sulle modalità
normali di invecchiamento del cervello: ad esempio i ricercatori
stanno scoprendo in che modo le alterazioni del cervello dovute
all’invecchiamento possano danneggiare i neuroni e contribuire così
alla comparsa del morbo. Tra questi cambiamenti legati
all’invecchiamento troviamo l’infiammazione e la produzione di
molecole instabili, i cosiddetti radicali liberi.
Fattori genetici.
In rari casi i pazienti sviluppano il
morbo di Alzheimer tra i 30 e i 50 anni perchè per loro la malattia
è ereditaria: in queste persone si ha una mutazione, ovvero un
cambiamento definitivo, in uno dei geni ereditati da un genitore.
Sappiamo che queste mutazioni genetiche causano il morbo di
Alzheimer con esordio precoce.
Al contrario, nella maggior parte della
popolazione colpita, l’esordio dell’Alzheimer è tardivo e di solito
avviene dopo i 60 anni.
Fattori legati allo stile di vita.
Una dieta completa, il regolare esercizio fisico, una sana vita
sociale e occupazioni che stimolino la mente possono
aiutare a rimanere in salute. Le nuove ricerche suggeriscono la
possibilità che questi fattori potrebbero essere utili per diminuire
il rischio di deficit cognitivi e Alzheimer, gli scienziati stanno
compiendo ricerche sulla connessione tra i problemi cognitivi dovuti
all’invecchiamento e le malattie cardiache, l’ipertensione, il
diabete e l’obesità. Capire queste connessioni e rilevarle con gli
esperimenti clinici ci aiuterà a comprendere se riducendo i fattori
di rischio per queste altre malattie avrà una qualche utilità anche
per combattere il morbo di Alzheimer.

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DESCRIZIONE CLINICA
Epidemiologia
ETA' |
Nuovi casi per migliaia di persone all'anno |
65-69 |
3 |
70-74 |
6 |
75-79 |
9 |
80-84 |
23 |
85-89 |
40 |
90-> |
69 |
|
La malattia (o morbo) di Alzheimer è
definibile come un processo degenerativo che pregiudica
progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco
l'individuo che ne è affetto incapace di una vita normale e
provocandone alla fine la morte. In Italia ne soffrono circa 800.000
persone, e 26.6 milioni nel mondo secondo uno studio della Johns
Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, USA, con una
netta prevalenza di donne (per via della maggior vita media delle
donne rispetto agli uomini).
Definita anche "demenza di Alzheimer",
viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento
cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di
Alzheimer è la più comune, rappresentando, a seconda della
casistica, l'80-85% di tutti i casi di demenza.
A livello epidemiologico,
tranne che in rare forme genetiche famigliari "early-onset" (cioè ad
esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all'incidenza
della patologia è l'età. Molto rara sotto i 65 anni, la sua
incidenza aumenta progressivamente con l'aumentare dell'età, per
raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli
85 anni.
Da rilevazioni europee, nella
popolazione generale l'incidenza (cioè il numero di nuovi casi
all'anno) è di 2,5 casi ogni 1.000 persone per la fascia di età tra
i 65 ed i 69 anni; sale a 9 casi su 1.000 persone tra i 75 ed i 79
anni, ed a 40,2 casi su 1.000 persone tra gli 85 e gli 89 anni.
Costi economico-sociali.
La crescente incidenza di questa
patologia nella popolazione generale in tutto il mondo è
accompagnata da una crescita equivalente del suo enorme costo
economico e sociale: allo stato, secondo Lancet, il costo economico
per la cura dei pazienti affetti da demenza a livello mondiale è di
circa 600 miliardi di dollari all'anno, con un trend di crescita che
lo porterà nel 2030 ad aumentare dell'85% (e con un carico crescente
anche per i Paesi in via di sviluppo), facendolo divenire uno degli
oneri con maggior impatto economico per i sistemi sanitari nazionali
e le comunità sociali dell'intero pianeta.
Nonostante questo, la ricerca
scientifica e clinica sulla demenza è ancora gravemente
sottofinanziata: in Inghilterra, ad esempio, si calcola che il costo
economico complessivo della cura dei pazienti affetti da demenza
superi quello per i tumori e per le malattie cardiovascolari messe
insieme, ma la ricerca sulle demenze riceve solo un dodicesimo dei
finanziamenti di quella per i tumori.

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STORIA
Nel 1901, il dottor Alois
Alzheimer,
uno psichiatra tedesco, intervistò una sua paziente, la signora
Auguste D., di 51 anni. Le mostrò parecchi oggetti e successivamente
le chiese che cosa le era stato indicato. Lei non poteva però
ricordare. Inizialmente registrò il suo comportamento come
"disordine da amnesia di
scrittura", ma la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui
venne diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta
come malattia di Alzheimer. Negli anni successivi vennero registrati
in letteratura scientifica undici altri casi simili; nel 1910 la
patologia venne inserita per la prima volta dal grande psichiatra
tedesco Emil
Kraepelin nel
suo classico Manuale di Psichiatria, venendo da lui definita come
"Malattia di Alzheimer", o "Demenza Presenile". Il termine,
inizialmente utilizzato solo per le rare forme "early-onset"
(ovvero, con esordio clinico prima dei 65 anni), dopo il 1977 è
stato ufficialmente esteso a tutte le forme di Alzheimer.

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CLINICA
Immagine PET del
cervello di una persona con morbo di Alzheimer che mostra la perdita
di funzione del lobo
temporale.

Il decorso della malattia può essere
diverso, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, per ogni
singolo paziente; esistono comunque una serie di sintomi comuni, che
si trovano frequentemente associati nelle varie fasi con cui,
clinicamente, si suddivide per convenzione il decorso della
malattia. Ad una prima fase
lieve, fa seguito la fase
intermedia, e quindi la fase
avanzata/severa; il tempo di permanenza in ciascuna di
queste fasi è variabile da soggetto a soggetto, e può in certi casi
durare anche diversi anni.
La malattia viene spesso anticipata dal
cosiddetto mild
cognitive impairment (MCI), un leggero calo di
prestazioni in diverse funzioni cognitive in particolare legate alla
memoria, all'orientamento o alle capacità verbali. Tale calo
cognitivo, che è comunque frequente nella popolazione anziana, non è
necessariamente indicativo di demenza incipiente, può in alcuni casi
essere seguito dall'avvio delle fasi iniziali dell'Alzheimer.
La malattia si manifesta spesso
inizialmente come demenza caratterizzata da amnesia progressiva
ed altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è prima
circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero
disturbi di quella che viene chiamata on-going
memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è
fatto durante il giorno) e della memoria
prospettica (che riguarda l'organizzazione del futuro
prossimo, come ricordarsi di andare a un appuntamento); poi man mano
il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche
la memoria
episodica retrograda (riguardante fatti della propria
vita o eventi pubblici del passato) e la memoria
semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria
procedurale (che riguarda l'esecuzione automatica di
azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi
intermedio-avanzate della malattia.
A partire dalle fasi lievi e intermedie
possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del
linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od
oggetti, e frustranti tentativi di "trovare le parole", seguiti poi
nelle fasi più avanzate da disorganizzazione nella produzione di
frasi ed uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui
significati delle parole, etc.). Sempre nelle fasi lievi-intermedie,
la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di
documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro,
guida dell'automobile, cucinare, etc.) iniziano a diventare
progressivamente più impegnative e difficili, fino a richiedere
assistenza continuativa o divenire impossibili.
Nelle fasi intermedie ed avanzate,
inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali
(vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni
comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione,
ed occasionalmente deliri e allucinazioni).
Il disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero
la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo,
nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri –
comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi)
è sintomo frequente a partire dalle fasi intermedie-avanzate. In
tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura
della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, etc.).
Ai deficit cognitivi e comportamentali,
nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche
internistiche, che portano a una compromissione progressiva della
salute. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una decina di
anni dopo la diagnosi clinica di malattia conclamata.
Come sottolineato, col progredire della
malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma
risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia
associativa, e possono pertanto presentare afasia
e aprassia,
fino a presentare disturbi
neurologici e poi internistici;
pertanto i pazienti, nelle fasi intermedie ed avanzate, necessitano
di continua assistenza personale (solitamente erogata da famigliari
e badanti, i cosiddetti caregivers, che sono a loro volta sottoposti
ai forti stress tipici di chi assiste i malati di Alzheimer).

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CURA
Il morbo di Alzheimer è una malattia
complessa e non esiste alcuna bacchetta
magica in grado di prevenirlo o di curarlo. Questo è il
motivo per cui le terapie che oggi abbiamo a disposizione si
concentrano su diversi aspetti, tra cui:
-
la salvaguardia delle
capacità mentali,
-
la gestione dei sintomi
comportamentali
-
il rallentamento del
decorso della malattia,
-
la prevenzione.
Salvaguardia delle capacità mentali
Esistono quattro farmaci approvati
dalla Food and Drug Administration americana per la cura del morbo
di Alzheimer:
-
donepezil (Aricept®),
-
rivastigmina (Exelon®)
-
galantamina (Reminyl®)
Questi 3 farmaci vengono usati per
curare l’Alzheimer da lieve a moderato (il donepezil può anche
essere usato per l’Alzheimer grave).
Quest’ultima viene usata per curare l’Alzheimer
da moderato a grave, ma al momento non è in commercio in Italia.
Il funzionamento di questi farmaci si
basa sulla regolazione dei neurotrasmettitori (le sostanze chimiche
che trasmettono i messaggi tra i neuroni), possono contribuire alla
salvaguardia del pensiero, della memoria e delle abilità di parola e
dimostrarsi efficaci con determinati problemi comportamentali.
Tuttavia questi farmaci non modificano il decorso della malattia e
possono dimostrarsi utili solo per un periodo che va da alcuni mesi
ad alcuni anni.
Gestione dei sintomi comportamentali
Tra i sintomi comportamentali più
comuni del morbo di Alzheimer troviamo:
-
insonnia,
-
agitazione,
-
vagabondaggio,
-
ansia,
-
aggressività,
-
depressione.
I ricercatori stanno scoprendo perché
si verificano questi sintomi e stanno studiando nuove terapie,
farmacologiche e non, per gestirli. La terapia dei sintomi
comportamentali spesso rende più autonomi i malati di Alzheimer e
facilita il compito di chi li assiste.

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TERAPIA
Anche se al momento non esiste una cura
efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per
tentare di influenzare clinicamente il decorso del morbo di
Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente
alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. È inoltre
opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e
comportamentali, che hanno dimostrato effetti positivi,
sinergicamente all'uso dei presidi farmacologici, nel rallentamento
dell'evoluzione dei sintomi e nella qualità della vita dei pazienti
e dei caregivers.
Intervento farmacologico
In primo luogo, basandosi sul fatto che
nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina,
un'ipotesi terapeutica è stata quella di provare a ripristinarne i
livelli fisiologici. L'acetilcolina pura non può però essere usata,
in quanto troppo instabile e con un effetto limitato. Gli agonisti
colinergici invece avrebbero effetti sistemici e produrrebbero
troppi effetti collaterali, e non sono quindi utilizzabili. Si
possono invece usare gli inibitori della colinesterasi,
l'enzima che catabolizza l'acetilcolina: inibendo tale enzima,
si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello spazio
intersinaptico.
Sono a disposizione farmaci inibitori
dell'acetilcolinesterasi,
che hanno una bassa affinità per l'enzima presente in periferia, e
che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera
emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza
sul sistema
nervoso centrale. Tra questi la tacrina,
il donepezil,
la fisostigmina,
la galantamina e
la neostigmina sono
stati i capostipiti, ma l'interesse farmacologico è attualmente
maggiormente concentrato sugli inibitori reversibili della
acetilcolinesterasi, quali la rivastigmina e
lagalantamina stessa.
Un'altra, più recente, linea d'azione
prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistemaglutamatergico,
come la memantina.
La memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma
positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in
pazienti con Alzheimer da moderato a grave.
La tacrina non
è più utilizzata perché epatotossica, mentre il donepezil,
inibitore non competitivo dell'acetilcolinesterasi, sembrerebbe più
efficace perché, con una emivita di circa 70 ore, permette una sola
somministrazione al giorno (mentre la galantamina ha una emivita di
7 ore). Ovviamente però il donepezil è più soggetto a manifestare
effetti collaterali dovuti ad un aumento del tono colinergico (quali
insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea). Di contro, la
galantamina e la rivastigmina possono causare gli stessi effetti, ma
in misura molto minore.
Altre ipotesi di approccio farmacoterapico
Oltre alle molecole e strategie di
intervento già delineate, sono state variamente proposte altre
ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di
efficacia però insufficienti o non confermate.
Tra esse, un'altra ipotesi
complementare di approccio alla patologia è legata alla proposta
d'uso di FANS (anti-infiammatori
non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una dinamica
infiammatoria che danneggia i neuroni. L'uso di antiinfiammatori è
stato quindi ipotizzato che potrebbe migliorare la condizione
clinica dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura
post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor
incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte
neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide) Alcuni ricercatori
avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva
della vitamina
E (alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la
perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal
processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato
l'utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione
primaria e secondaria della patologia, sottolineando anzi i
potenziali rischi sanitari legati all'eccessiva e prolungata
assunzione di vitamina E.
Sul processo neurodegenerativo può
intervenire anche l'eccitotossicità,
ossia un'eccessiva liberazione di acidiGlutammico ed Aspartico,
entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero
intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di
usare farmaci antagonisti del glutammato e dell'aspartato, ma anche
questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.
Sono presenti in commercio farmaci
definiti Nootropi ("stimolanti
del pensiero"), come il Piracetam e
l'Aniracetam:
questi farmaci aumentano il rilascio di Acido
glutammico; anche se questo parrebbe in netta
contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che
comunque tale neurotrasmettitore è
direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di
apprendimento. Aumentandone la quantità, è stato ipotizzato di poter
contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso,
l'evidenza clinica di efficacia è scarsa.
Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra
che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo
così una migliore ossigenazione cerebrale, ed un conseguente
miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso
scopo è stato proposto l'uso del Gingko
biloba, ma l'evidenza scientifica a supporto di
questa tesi è negativa.
Intervento psicosociale e cognitivo

Una stanza speciale progettata per la
terapia di riabilitazione sensoriale.
Le forme di trattamento
non-farmacologico consistono prevalentemente in interventi
comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo.
Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con
il trattamento farmacologico, ed hanno dimostrato una loro efficacia
positiva nella gestione clinica complessiva del paziente.
I training cognitivi (di diverse
tipologie, e con diversi obbiettivi funzionali: Reality-Orientation
Therapy,Validation
Therapy, Reminescence
Therapy, i vari programmi di stimolazione cognitiva – Cognitive
Stimulation Therapy, etc.), hanno dimostrato risultati
positivi sia nella stimolazione e rinforzo delle capacità
neurocognitive, che nel miglioramento dell'esecuzione dei compiti di
vita quotidiana. I diversi tipi di intervento si possono rivolgere
prevalentemente alla sfera cognitiva (ad es., Cognitive
Stimulation Therapy), comportamentale (Gentlecare,
programmi di attività motoria), sociale ed emotivo-motivazionale (ad
es., Reminescence
Therapy,Validation
Therapy, etc.).
La Reality-Orientation
Therapy, focalizzata su attività formali ed informali di
orientamento spaziale, temporale e sull'identità personale, ha
dimostrato in diversi studi clinici di poter facilitare la riduzione
del disorientamento soggettivo, e contribuire a rallentare il
declino cognitivo, soprattutto se effettuata con regolarità nelle
fasi iniziali e intermedie della patologia.
I vari programmi di stimolazione
cognitiva (Cognitive
Stimulation), sia eseguiti a livello individuale
(eseguibili anche presso il domicilio dai caregivers,
opportunamente formati), che in sessioni di gruppo, possono
rivestire una significativa utilità nel rallentamento dei sintomi
cognitivi della malattia, e, a livello di economia sanitaria,
presentano un ottimo rapporto tra costi e benefici. La stimolazione
cognitiva, oltre a rinforzare direttamente le competenze cognitive
di tipo mnestico, attentivo e di pianificazione, facilita anche lo
sviluppo di "strategie di compensazione" per i processi cognitivi
lesi, e sostiene indirettamente la "riserva
cognitiva" dell'individuo.
La Reminescence
Therapy (fondata sul recupero e la socializzazione di
ricordi di vita personale positivi, con l'assistenza di personale
qualificato e materiali audiovisivi), ha dimostrato risultati
interessanti sul miglioramento dell'umore, dell'autostima e delle
competenze cognitive, anche se ulteriori ricerche sono ritenute
necessarie per una sua completa validazione.
Forme specifiche di musicoterapia ed arteterapia,
attuate da personale qualificato, possono essere utilizzate per
sostenere il tono dell'umore e forme di socializzazione nelle fasi intermedio-avanzate della
patologia, basandosi su canali di comunicazione non verbali.
Positivo sembra essere anche l'effetto
di una moderata attività fisica e motoria, soprattutto nelle fasi
intermedie della malattia, sul tono dell'umore, sul benessere fisico
e sulla regolarizzazione dei disturbi comportamentali, del sonno e
alimentari.
Fondamentale è inoltre la preparazione
ed il supporto, informativo e psicologico, rivolto ai "caregivers"
(parenti e personale assistenziale) del paziente, che sono
sottoposti a stress fisici ed emotivi significativi, in particolare
con l'evoluzione della malattia.
Una chiara informazione ai famigliari,
una buona alleanza di lavoro con il personale sanitario, e la
partecipazione a forme di supporto psicologico diretto (spesso
tramite specifici gruppi di auto-mutuo-aiuto tra pari), oltre
all'eventuale coinvolgimento in associazioni di famigliari,
rappresentano essenziali forme di sostegno per l'attività di cura.
Sempre nello stesso senso appare di
particolare utilità, solitamente a partire dalle fasi intermedie della
patologia, l'inserimento del paziente per alcune ore al giorno nei Centri
Diurni, presenti in molte città (attività che può portare
benefici sia per la stimolazione cognitiva e sociale diretta del
paziente, che per il supporto sociale indiretto ai caregivers).
La cura dell'Alzheimer è però ai primi
passi: al momento non esistono ancora farmaci o interventi
psicosociali che guariscano o blocchino la malattia. Si può
migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a
rallentarne il decorso nelle fasi iniziali e intermedie.

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AIUTARE LA FAMIGLIA
Assistere un malato di Alzheimer può
avere enormi costi fisici, emotivi e finanziari. Le necessità di
cura quotidiana, il cambiamento dei ruoli all’interno della famiglia
e la difficoltà di decidere verso quale struttura indirizzare il
malato possono essere difficili da affrontare.
Una strategia importante, valida sul
lungo periodo, è quella di documentarsi il più possibile sull’Alzheimer:
i programmi che insegnano alle famiglie quali sono le varie fasi
dell’Alzheimer e quali strategie e pratiche flessibili adottare
quando la cura del malato è più difficile, forniscono un aiuto di
vitale importanza a tutti coloro che assistono un paziente.
Anche sviluppare le opportune strategie
di convivenza con la malattia e una forte rete di aiuto, costituita
da famigliari e amici, sono due modi importanti con cui chi assiste
il malato può gestire lo stress dovuto all’assistenza continua: ad
esempio, se si fa attività fisica si possono avere ricadute positive
sul fisico e sull’umore.
Alcune persone che assistono ritengono
che partecipare a un gruppo di aiuto apposito sia una vera e propria
ancora di salvezza, questi gruppi permettono a chi assiste un malato
di trovare un momento di tregua, di esprimere le proprie
preoccupazioni, di condividere il proprio vissuto, di ricevere
consigli e solidarietà emotiva.

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DIAGNOSI
La diagnosi di Alzheimer diventa
definitiva solo dopo la morte del paziente ed il decorso della
malattia viene messo in relazione con gli esiti dell’esame autoptico
del tessuto cerebrale.
Al giorno d’oggi i medici hanno diversi
metodi e strumenti per determinare con sufficiente accuratezza se
una persona con problemi di memoria è affetta da Alzheimer
possibile (quando
i sintomi potrebbero anche essere dovuti a un’altra causa) oppure probabile (quando
non si riesce a individuare nessun’altra causa per i sintomi).
Per diagnosticare il morbo di Alzheimer,
i medici:
-
si informano sullo stato di
salute generale del paziente, sui problemi clinici avuti in passato,
sulla capacità di svolgere le attività quotidiane e sugli eventuali
cambiamenti del comportamento e della personalità.
-
somministrano test riguardanti la
memoria, la capacità di risolvere problemi, l’attenzione, la
capacità di contare e il linguaggio
-
consigliano altri esami clinici,
ad esempio esami del sangue, delle urine o del midollo spinale
-
esaminano il cervello, con esami
come la tomografia computerizzata (TC) o la risonanza magnetica.
Questi esami possono essere ripetuti per
dare informazioni su come la memoria del paziente varia nel corso
del tempo.
La diagnosi precoce è utile per
diversi motivi. Se la malattia viene diagnosticata precocemente e si
inizia la terapia quando è ancora nei primi stadi si può conservare
la funzionalità del cervello per mesi o addirittura anni, anche se il
processo degenerativo dovuto all’Alzheimer non può essere arrestato.
La diagnosi precoce può anche aiutare le famiglie a fare progetti
per il futuro, a trovare una casa più adatta al malato, a occuparsi
delle questioni finanziarie e legali e a sviluppare reti di
supporto.
Diagnosi clinica

Immagine PET del
cervello di una persona con morbo di Alzheimer che mostra la perdita
di funzione del lobo
temporale.
La malattia di Alzheimer è di solito
diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da
osservazioni cliniche, dalla presenza di peculiari caratteristiche
neurologiche e neuropsicologiche e per l'assenza di condizioni
alternative.
Sistemi avanzati di imaging biomedico,
come la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (MRI),
la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia
ad emissione di positroni (PET) possono essere utilizzate per
aiutare ad escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di
demenza. Inoltre, si possono prevedere il passaggio da fasi
prodromiche (decadimento cognitivo lieve) al morbo di Alzheimer.
Gli assessment neuropsicologici e
cognitivi, inclusi i test di memoria ed esecutivi, possono
ulteriormente caratterizzare lo stato della malattia. Diverse
organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per
facilitare e standardizzare il processo diagnostico. La diagnosi
clinica viene confermata a livello patologico solo con l'analisi
istologica del cervello post-mortem.
Criteri diagnostici
Lo statunitense National
Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINCDS)
e l'Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio
diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007.
Questo criterio richiede che la presenza di deficit cognitivi e una
sospetta sindrome di demenza debbano essere confermati da test
neuropsicologici per porre la diagnosi clinica di Alzheimer. Una
conferma istopatologica, tra cui un esame al microscopio del tessuto
cerebrale (eseguibile solo post-mortem) è necessaria per una
conferma della diagnosi definitiva a posteriori.
Sono otto gli ambiti funzionali
cognitivi più comunemente compromessi: memoria, linguaggio, abilità
percettiva, attenzione, abilità costruttiva, orientamento,
risoluzione dei problemi e capacità funzionali. Questi ambiti
cognitivi sono equivalenti ai criteri della NINCDS ADRDA, come
elencati nel Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM)
pubblicato dalla American
Psychiatric Association.
Tecniche diagnostiche

Alcuni test di screening
neuropsicologico possono essere utili nella diagnosi di Alzheimer
Diversi test di screening
neuropsicologico vengono utilizzati per la diagnostica nei casi di
Alzheimer. I test valutano diverse funzioni e competenze cognitive,
come il saper copiare disegni simili a quelli mostrati nella foto,
ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie.
Test neuropsicologici come il Mini
Mental State Examination (MMSE),
sono ampiamente utilizzati per valutare i disturbi cognitivi che
vengono considerati per la formulazione della diagnosi. Una batteria
di test più completa è necessaria per garantire la massima
affidabilità dei risultati, in particolare nelle prime fasi della
malattia. L'esame neurologico nelle prime fasi della malattia
solitamente presenta risultati normali, fatta eccezione per evidenti
deficit cognitivi che non differiscono però da quello derivanti da
altre malattie di tipo demenziale.
Ulteriori esami neurologici sono
cruciali nella diagnosi differenziale di Alzheimer dalle altre
malattie. Colloqui con gli altri membri della famiglia sono inoltre
utilizzate nella valutazione funzionale della malattia. I caregiver
possono infatti fornire importanti informazioni sulla capacità di
vita quotidiana, così come la diminuzione, nel tempo, della funzione
mentale della persona.
Il punto di vista di chi assiste il
malato è particolarmente importante, dato che una persona con
Alzheimer è spesso inconsapevole del suo deficit.
A volte le famiglie hanno difficoltà
nella rilevazione esatta dei primi sintomi di demenza nelle sue fasi
iniziali, e per questo non riescono sempre a comunicare informazioni
accurate al medico.
Un altro indicatore oggettivo delle
prime fasi della malattia è l'analisi del liquido cerebrospinale per
la ricerca di beta-amiloide o di proteine tau. La ricerca di queste
proteine è in grado di prevedere l'insorgenza del morbo di Alzheimer
con una sensibilità compresa tra il 94% ed il 100%. Quando è
utilizzata in combinazione con le tecniche di neuroimaging
esistenti, i medici sono grado di identificare i pazienti che stanno
già sviluppando la malattia. Gli esami del liquido cerebrospinale
sono disponibili più facilmente, a differenza delle tecnologie di
neuroimmaging più moderne.Gli esami del liquido spinale sono
disponibili più facilmente, a differenza delle tecnologie di
neuroimmaging più moderne.
Altri test clinici supplementari
forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della
malattia, o venogono utilizzati per escludere altre diagnosi. E'
comune eseguire test di funzionalità tiroidea, valutare i livelli di
vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi metabolici
(tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per
il diabete), valutare i livelli di metalli pesanti (ad esempio il
piombo e il mercurio), e l'anemia. E' anche necessario escludere la
presenza di sintomatologia psichiatrica, quali deliri, disturbi
dell'umore, disturbi del pensiero di natura psichiatrica, o
pseudodemenze depressive.
In particolare vengono utilizzati test
psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che la
depressione può essere concomitante con l'Alzheimer, essere un segno
precoce di deficit cognitivo, o esserne addirittura la causa.
Imaging diagnostico

Questa immagine mostra una scansione PiB-PET di
un paziente con malattia di Alzheimer a sinistra, e di una persona
anziana con memoria normale sulla destra. Le aree di rosso e giallo
mostrano alte concentrazioni di PiB, nel cervello che suggeriscono
quantità maggiori di depositi di Betamiloide
Se sono disponibili, la Tomografia a
emissione di fotone singolo (SPECT) e la Tomografia a emissione di
positroni (PET), possono essere utilizzati per la conferma di una
diagnosi di Alzheimer in associazione con le valutazioni dello stato
mentale. In una persona già affetta da demenza, la SPECT sembra
essere superiore nel differenziare la malattia di Alzheimer da altre
possibili cause, rispetto all'analisi della storia famigliare e
all'osservazione del paziente. I progressi hanno portato alla
proposta di nuovi criteri diagnostici di imaging biomedico.
Una nuova tecnica nota come PiB
PET è stata
sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente immagini di
depositi di beta-amiloide in
vivo, utilizzando un radiotracciante che si lega
selettivamente ai depositi A-beta.
La PiB-PET utilizza il carbonio-11 per
la scansione PET. Studi recenti suggeriscono che la PiB-PET è
precisa all'86% nel predire quali persone, già affette da
decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la malattia di Alzheimer
entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilità di
sviluppare il morbo di Alzheimer.
Un radiofarmaco per PET chiamato
(E)-4-(2-(6-(2-(2-(2-([18F]-fluoroethoxy)ethoxy)ethoxy)pyridin-3-yl)vinyl)-N-methyl
benzenamine, o 18F AV-45, o florbetapir-fluorine-18, o semplicemente
florbetapir, contenente il più duraturo radionuclide fluoro-18, è
stato recentemente realizzato e testato come possibile supporto
diagnostico nella malattia di Alzheimer. Il florbetapir, come il PiB,
si lega alla beta-amiloide, ma grazie all'uso del fluoro-18 ha una
emivita di 110 minuti, in rapporto al tempo di dimezzamento
radioattivo PiB che è di 20 minuti. La maggior durata permette di
accumulare maggior tracciante nel cervello di persone con malattia
di Alzheimer, in particolare nelle regioni note per essere associate
a depositi di beta-amiloide.
La risonanza magnetica volumetrica è in
grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni del
cervello. L'atrofia di queste regioni si sta mostrando come un
indicatore diagnostico della malattia. Essa può risultare meno
costosa di altre tecniche di imaging attualmente in fase di studio.

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I 10 SINTOMI PRINCIPALI
La malattia si manifesta in forma
insidiosa e progressiva, quindi non è sempre facile determinare
quando è iniziata.
I primi sintomi sono disturbi della
memoria e cambiamenti nel comportamento e nell'umore.
Top 10 dei segni del morbo di Alzheimer:
1. Perdita di memoria
Dimenticare appuntamenti, date,
commissioni… sempre dei fatti recenti: "Chi è venuto a trovarmi
ieri?", "Che cosa ho mangiato a pranzo?", "Chi ha chiamato al
telefono?"
2. Frequente ripetizione delle stesse domande dopo ricevere le
risposte
"Che ora è?", "Che ora è?" …
oppure "Quando torna mia madre?", "Quando torna mia madre?"
3. Disposizione delle cose nei posti sbagliati
Si trovano le chiavi della
macchina nella spazzatura, gli occhiali nascosti dentro una scarpa…oppure non ricordare dove ha messo le cose.
4. Difficoltà a ricordare i nomi degli oggetti comuni
"Dammi il … il …. Ah! Non mi
ricordo come si chiama "
5. Perdita del senso di orientamento rispetto al posto e/o il tempo
"Che giorno è?" Quando è
ovviamente una Domenica, "Dove mi trovo?" Quando è a casa. Perdersi
sulla strada per la panetteria dove si acquista il pane ogni
mattina.
6. Difficoltà nell’eseguire gesti semplici e comuni
Non riesce ad aprire la porta con
la chiave, si commettono errori nel maneggiare la leva del cambio
della macchina …
7. Perdita dell’interesse e della motivazione nello svolgere le
attività che normalmente facevano con piacere.
Smettere di leggere il giornale,
guardare i loro programmi TV preferiti, giocare a carte con gli
amici…
8. Difficoltà a realizzare compiti facili
Sbagliare nel gestire il conto in
banca o difficoltà in fare una firma. Non riesce a fare una
telefonata
9. Improvvisi cambiamenti di umore
Si arrabbiano, diventano lunatici
e alcune volte anche violenti… senza motivazione
10. Difficoltà nell’uso di oggetti molto familiari.
Sbagliare ad usare le posate
quando si mangia. Sapere cosa è un pettine, ma non ricordarsi come
si usa.
Commenti dell’Associazione Alzheimer – Asti
-
Non tutti i sintomi si presentano
allo stesso tempo.
-
Una perdita di memoria non vuol
dire che sia l’inizio del morbo di Alzheimer.
-
I cambiamenti di personalità e
soprattutto il calo d’interesse per le attività sono comuni quando si arriva ad una certa età.

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PATOGENESI

Immagine istopatologica di placche
senili nella corteccia cerebrale di una persona
affetta da Morbo di Alzheimer.
La malattia è dovuta a una diffusa
distruzione di neuroni,
principalmente attribuita alla betamiloide,
una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta
di collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari". La
malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel
cervello (si tratta di un
neurotrasmettitore, ovvero di una molecola
fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e dunque per la
memoria e ogni altra facoltà intellettiva). La conseguenza di queste
modificazioni cerebrali è l'impossibilità per il neurone di
trasmettere gli impulsi nervosi, e quindi la morte dello stesso, con
conseguente atrofia progressiva del cervello nel suo complesso.
A livello neurologico macroscopico, la
malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume
del cervello, dovuta ad atrofia corticale, visibile anche in un
allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle
circonvoluzioni.
A livello microscopico e cellulare,
sono riscontrabili depauperamento neuronale, placche
senili (dette ancheplacche
amiloidi), ammassi
neurofibrillari, angiopatia
congofila (amiloidea).
Dall'analisi post-mortem di tessuti
cerebrali di pazienti affetti da Alzheimer (solo in tale momento si
può confermare la diagnosi clinica da un punto di vista
anatomo-patologico), si è potuto riscontrare un accumulo
extracellulare di una proteina, chiamata Beta-amiloide.
Nei soggetti sani la APP (Amyloid
precursor protein, Proteina Progenitrice dell'Amiloide),
attraverso una reazione biologica catalizzata dall'alfa-secretasi,
produce un peptide innocuo chiamato p3.
Per motivi non totalmente chiariti, nei soggetti malati l'enzima che
interviene sull'APP non è l'alfa-secretasi ma una sua variante, la
beta-secretasi, che porta alla produzione di un peptide di 40-42
aminoacidi: la beta-amiloide.
Tale beta-amiloide non presenta le
caratteristiche biologiche della forma naturale, ma tende a
depositarsi in aggregati extracellulari sulla membrana dei neuroni.
Tali placche neuronali innescano un processo
infiammatorio che attiva una risposta immunitaria
richiamando macrofagi e neutrofili,
i quali produrranno
citochine, interleuchine e TNF-alfa
che danneggiano irreversibilmente i neuroni.
Ulteriori studi mettono in evidenza che
nei malati di Alzheimer interviene un ulteriore meccanismo
patologico: all'interno dei neuroni una Proteina
Tau, fosforilata in
maniera anomala, si accumula nei cosiddetti "aggregati
neurofibrillari" (o ammassi
neurofibrillari).
Particolarmente colpiti da questo
processo patologico sono i neuroni colinergici,
specialmente quelli delle aree corticali, sottocorticali e, tra
queste ultime, le aree ippocampali.
In particolare, l'ippocampo è una
struttura encefalica che svolge un ruolo fondamentale
nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione; perciò la
distruzione dei neuroni di queste zone è ritenuta essere la causa
principale della perdita di memoria dei malati.

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PREVENZIONE

Compiere attività intellettive, come giocare
a scacchi o mantenere regolari rapporti sociali, è
considerato un modo per prevenire la malattia di Alzheimer.
Al momento non ci sono prove definitive
per sostenere l'efficacia di una qualsiasi misura preventiva per la
malattia di Alzheimer. Studi per identificarle hanno spesso prodotto
risultati inconsistenti. Tuttavia, studi
epidemiologici hanno proposto le relazioni tra alcuni
fattori modificabili, come la dieta, il rischio cardiovascolare,
l'utilizzo di prodotti farmaceutici, o lo svolgimento di attività
intellettuali e la probabilità di una popolazione di sviluppare il
la malattia. Solo ulteriori ricerche, tra cui gli studi clinici,
riveleranno se questi fattori possono aiutare a prevenire o
ritardale l'insorgenza del morbo di Alzheimer.
Sebbene i fattori di rischio
cardiovascolari, come l'ipercolesterolemia,
l'ipertensione,
il diabete e
il fumo,
sono associati con un rischio maggiore di insorgenza della malattia,
le statine,
che sono farmaci per l'abbassamento del colesterolo,
non si sono verificate efficaci nel prevenire o migliorare il
decorso. I componenti di una
dieta mediterranea, che comprendono frutta e verdura, pane, grano e
altri cereali, olio
d'oliva, pesce e vino
rosso, possono singolarmente o tutti insieme ridurre
il rischio e ritardare il decorso della malattia di Alzheimer. I
loro benefici effetti cardiovascolari sono stati proposti come il
meccanismo di azione. Ci sono prove limitate che un consumo, da
lieve a moderato, di alcool, soprattutto vino rosso, sia associato a
un minor rischio di Alzheimer.
Ipotesi sull'uso di vitamine non hanno
trovato prove sufficienti di efficacia per raccomandare la vitamina
C, E o
acido folico, con o senza vitamina
B12, come agenti di prevenzione o per il trattamento
dell'Alzheimer. Inoltre, la vitamina E, è associata a rischi per la
salute. Studi compiuti esaminando la somministrazione di acido
folico (B9) e di altre vitamine
B non hanno mostrato alcuna correlazione
significativa con il declino cognitivo.
L'utilizzo a lungo termine di farmaci
anti-infiammatori non steroidei (FANS) è associato ad
una ridotta probabilità di sviluppare Alzheimer. Studi post-mortem
umani, in modelli animali, o in studi in vitro supportano il
l'ipotesi che i FANS possano ridurre l'infiammazione correlata
alle placche amiloidi. Tuttavia, studi riguardanti il loro uso come
trattamento palliativo non sono riusciti a dimostrare risultati
positivi, mentre nessun processo di prevenzione è stato realizzato.
La curcumina del curry ha
mostrato una certa efficacia nel prevenire i danni cerebrali, nei
modelli di topo, in virtù delle sue proprietà anti-infiammatorie.
La terapia
ormonale sostitutiva, anche se utilizzata in
precedenza, non è più ritenuta efficace per prevenire la demenza e
in alcuni casi può anche essere ritenuta responsabile.
Le persone che si impegnano in attività
intellettuali, come la lettura, i giochi da tavolo, i cruciverba,
suonare strumenti musicali o che hanno una regolare interazione
sociale, mostrano una riduzione del rischio di sviluppo della
malattia di Alzheimer. Questo è compatibile con la teoria della riserva
cognitiva, in cui si afferma che alcune esperienze di
vita forniscono all'individuo una riserva cognitiva che ritarda
l'insorgenza di manifestazioni di demenza. L'apprendimento di una
seconda lingua, anche in tarda età, sembra ritardare la malattia di
Alzheimer. L'attività fisica è anche associata ad un ridotto rischio
di Alzheimer.
Alcuni studi hanno mostrato un
aumentato rischio di sviluppare la malattia nel caso di assunzione
di metalli ed in particolare alluminio,
o se espositi a particolari solventi.
La qualità di alcuni di questi studi è stata però criticata, e altri
studi hanno concluso che non vi è alcuna relazione tra questi
fattori ambientali e lo sviluppo di Alzheimer.
Mentre alcuni studi suggeriscono che
l'esposizione a
campi elettromagnetici a bassa
frequenza può aumentare il rischio di sviluppare la
malattia di Alzheimer, i revisori hanno rilevato che ulteriori
indagini epidemiologiche e di laboratorio sono necessari prima di
avvalorare questa ipotesi. Il fumo è un importante fattore di
rischio per l'Alzheimer.
Alcun studi (National Institute on
Ageing di Baltimora) ipotizzano come il digiuno ad intervalli
regolari (1 o 2 giorni a settimana) possa risultare come un
palliativo alle forme più gravi della malattia.

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PROGNOSI

Disabilità per Alzheimer e altre forme
di demenza per 100.000 abitanti nel 2004.
|
nessun dato |
|
≤ 50 |
|
50–70 |
|
70–90 |
|
90–110 |
|
110–130 |
|
130–150 |
|
150–170 |
|
170–190 |
|
190–210 |
|
210–230 |
|
230–250 |
|
≥ 250 |
Le fasi iniziali della malattia di
Alzheimer sono difficili da diagnosticare. Una diagnosi definitiva è
posta solitamente una volta che si verifica una significativa
compromissione cognitiva e una percepibile riduzione di capacità di
svolgere le attività della vita quotidiana, anche se la persona è
ancora in grado di gestirsi autonomamente. Il deterioramento della
memoria e il peggioramento dei disturbi cognitivi e non cognitivi,
associati alla malattia, riducono progressivamente l'autonomia nella
vita quotidiana.

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SINTOMI
I problemi di memoria sono uno dei primi segni del morbo di
Alzheimer.
Alcune persone che hanno problemi di
memoria in realtà sono affette da un altro tipo di disturbo, una
compromissione cognitiva amnesica lieve (MCI amnesica), hanno più
problemi di memoria rispetto alle persone sane della loro età, ma i
loro sintomi non sono così gravi come quelli del morbo di Alzheimer.
Le persone affette da MCI hanno tuttavia maggiori probabilità di
sviluppare il morbo di Alzheimer rispetto a quelle sane.
Anche altri cambiamenti possono essere
segnali d’allarme dei primissimi stadi del morbo di Alzheimer:
esisterebbe per esempio una connessione tra alcune difficoltà di
movimento e la MCI amnesica e sono state evidenziate connessioni tra
alcuni problemi di olfatto ed i problemi cognitivi.
Sintomi Alzheimer lieve
Con il progredire della malattia
continua la perdita di memoria e appaiono alterazioni in altre
abilità cognitive, tra i problemi frequenti possiamo individuare la
tendenza a:
-
perdere l’orientamento,
-
aver problemi quando si maneggia
il denaro o si deve pagare il conto,
-
ripetere le domande,
-
impiegare più tempo del solito a
svolgere le normali attività,
-
non valutare correttamente le
situazioni,
-
cambiare l’umore e la
personalità.
La prima diagnosi di solito avviene in
questa fase.
I principali sintomi caratteristici di
questo stadio sono:
-
Il malato sembra non aver più
voglia né gusto di vivere: non intraprende alcuna attività.
-
Perde la memoria dei fatti recenti, però questo non si nota né
dall’aspetto fisico né dalla conversazione casuale.
-
Perde confidenza con i soldi.
-
Ha difficoltà nell’imparare cose
nuove e nel fissarle nella memoria.
-
Ha problemi a trovare le parole:
può sostituire o inventare parole che assomigliano a quelle
dimenticate, o hanno un significato simile.
-
Può smettere di parlare per
evitare di commettere errori.
-
La capacità di concentrazione
diminuisce, così come la motivazione a continuare l’attività che sta
svolgendo.
-
Si perde con facilità, anche nei
luoghi che gli sono familiari.
-
Oppone resistenza al cambiamento
o alle novità.
-
Ha problemi a organizzarsi e a
pensare in modo logico.
-
Ripete le stesse domande più
volte.
-
Si ritira in sé stesso, perde
interesse, è irritabile; non è più sensibile ai sentimenti degli
altri; è insolitamente arrabbiato in situazioni di stanchezza o di
frustrazione.
-
Non prende decisioni, ad esempio
quando gli si chiede cosa vuol mangiare afferma: “Prendo quel che
prendi tu.”
-
Impiega più tempo del solito per
fare i lavori di casa ed è turbato se deve fare in fretta o se
avviene qualcosa di imprevisto.
-
Dimentica di pagare, paga di più
del dovuto o dimentica come si fa per pagare: può dare al cassiere
il portafoglio, anziché la somma di denaro richiesta.
-
Dimentica di mangiare, mangia
solo un certo alimento oppure mangia in continuazione.
-
Perde le cose o le mette al
posto sbagliato; le nasconde in luoghi insoliti o dimentica dove
andrebbero sistemate, ad esempio mettendo i vestiti in
lavastoviglie.
-
Controlla, cerca o ammucchia
costantemente cose senza alcun valore.
Sintomi Alzheimer moderato
In questo stadio i danni si verificano
nelle zone del cervello che controllano
La perdita di memoria e la confusione
aumentano e i malati iniziano ad avere problemi nel riconoscere i
famigliari e gli amici. Possono non essere in grado di imparare cose
nuove, di svolgere dei compiti che comportano una successione di
passaggi (ad esempio vestirsi) o di affrontare situazioni nuove.
Possono avere allucinazioni, manie e paranoie, e possono comportarsi
impulsivamente.
In questo stadio i cambiamenti che è
possibile riconoscere sono:
-
Le alterazioni del
comportamento, le preoccupazioni per l’aspetto fisico, per l’igiene
e per il sonno diventano più frequenti.
-
Confonde le identità delle
persone: può pensare che suo figlio sia in realtà suo fratello o che
la moglie sia un’estranea.
-
I problemi intellettivi causano
minacce alla sua sicurezza, se lo si lascia solo: può vagabondare e
non rendersi conto dei rischi che corre, può avvelenarsi, cadere,
trascurarsi o farsi raggirare da qualche malintenzionato.
-
Ha dei problemi a riconoscere le
persone che gli sono familiari e gli oggetti che gli appartengono;
può appropriarsi di cose non sue.
-
Ripete in continuazione storie,
parole o frasi che gli piacciono oppure movimenti, come ad esempio
strappare fazzoletti di carta.
-
Nel tardo pomeriggio o alla sera
compie movimenti ripetitivi, senza sosta: ad esempio può camminare,
girare i pomelli delle porte o toccare le tende.
-
Non è in grado di organizzare i
pensieri né di seguire spiegazioni logiche.
-
Ha dei problemi a seguire
appunti scritti o a portare a termine delle attività.
-
Si inventa delle bugie per
riempire i buchi di memoria. Ad esempio, potrebbe dire: “Tanto
arriverà mia madre, quando avrà finito di lavorare”.
-
Può essere in grado di leggere,
ma non di formulare la risposta corretta a una domanda scritta.
-
Può accusare, minacciare,
imprecare, agitarsi o comportarsi in modo inadeguato, ad esempio
dando calci e pugni, mordendo, gridando o graffiando.
-
Può trascurarsi o dimenticare le
buone maniere.
-
Può avere allucinazioni visive,
uditive o sensoriali.
-
Può accusare il coniuge di avere
un’altra relazione o i famigliari di avergli rubato qualcosa.
-
Si appisola con frequenza oppure
si sveglia in piena notte credendo che sia l’ora di andare al
lavoro.
-
Ha maggiori difficoltà a
posizionare il proprio corpo quando usa il water o si siede.
-
Può pensare che l’immagine dello
specchio lo segua o che le vicende trasmesse in tv accadano a
lui/lei.
-
Ha bisogno di aiuto per trovare
il bagno, per usare la doccia, per ricordarsi di bere e per vestirsi
in maniera adatta al tempo o alla circostanza.
-
La sua condotta sessuale è
inappropriata: può scambiare il coniuge per qualcun altro. Dimentica
quali sono i comportamenti privati, e può svestirsi o masturbarsi in
pubblico.
Alzheimer grave
Arrivati all’ultimo stadio le placche e
gli ammassi si sono diffusi in tutto il cervello ed il tessuto
cerebrale ha diminuito di molto le sue dimensioni. Le persone
affette da Alzheimer grave non riescono a comunicare e sono
completamente dipendenti da chi si prende cura di loro. Quando
l’organismo è vicino alla fine il paziente può dover restare nel
letto per la maggior parte del tempo o sempre.
In questa fase i cambiamenti
riconoscibili possono essere:
-
Non riconosce se stesso né i
parenti.
-
Pronuncia parole senza senso, è
muto o si fa capire con difficoltà.
-
Può rifiutarsi di mangiare, può
soffocare o dimenticarsi di deglutire.
-
Può urlare in continuazione
oppure toccare tutto quel che vede.
-
Perde il controllo
dell’intestino e della vescica.
-
Dimagrisce e quindi la pelle
diventa sottile e si ferisce facilmente.
-
Può essere a disagio o urlare
quando lo si sposta o tocca.
-
Dimentica come si fa a
camminare, oppure non è abbastanza sicuro da stare in piedi o
camminare da solo.
-
Può soffrire di convulsioni;
spesso può cadere e farsi male, oppure soffrire di infezioni.
-
Può lamentarsi, urlare o
borbottare ad alta voce.
-
Dorme di più.
-
Ha bisogno di assistenza per
tutte le attività quotidiane.
|